13.12.2025
Umami, la profondità del gusto
Cosa rende così appagante una scaglia di formaggio stagionato, un brodo limpido ma intenso, una carne asciugata con pazienza?
La risposta è spesso racchiusa in una parola: umami.
Definito all'inizio del Novecento dal chimico giapponese Kikunae Ikeda, l'umami è oggi riconosciuto come il quinto gusto fondamentale, accanto a dolce, salato, acido e amaro.
È il gusto della profondità, della persistenza, di quella sapidità che non stanca ma invita al morso successivo.
Dal punto di vista scientifico, l'umami è legato alla presenza naturale di glutammato e di alcuni nucleotidi che si sviluppano o si concentrano con la maturazione, la stagionatura e le cotture lente.
Processi che, da sempre, fanno parte integrante delle culture gastronomiche alpine.
Non a caso molti prodotti della tradizione elvetica ne sono ricchi, anche senza che il termine sia mai stato pronunciato.
I grandi formaggi come Gruyère e Sbrinz, prodotti con latte crudo e lunghe stagionature, e l'Emmentaler, nella sua espressione più matura, sono autentici concentrati di umami: complessi, asciutti, con note che si allungano sul palato.
Lo stesso vale per le carni lavorate con metodo e tempo, come la carne secca dei Grigioni, dove la disidratazione lenta intensifica il sapore senza appesantirlo.
Anche la cucina di casa, fatta di gesti misurati, esprime umami attraverso i brodi di manzo o di vitello, preparati con lunghe cotture e pochi ingredienti.
È una sapidità naturale, costruita sul rispetto della materia prima, che diventa la spina dorsale di zuppe, salse e piatti della tradizione.
Oggi l'umami è diventato una chiave di lettura consapevole per molti cuochi, che lo cercano non per stupire, ma per dare equilibrio.
Perché l'umami, più che un gusto esotico, è la dimostrazione che il tempo, la cura e la qualità restano gli ingredienti più potenti a tavola.
Articolo a cura della Redazione.